Quando si parla di fundraising culturale spesso si cade, anche involontariamente, in un vortice di stereotipi che induce ad una rappresentazione “ad una dimensione” del fenomeno del sostegno privato alla cultura il che non aiuta a comprendere la natura complessa e variegata che ha questo fenomeno, soprattutto nel nostro paese.
Le parole chiave che tendono a rendere stereotipo il fenomeno sono due: mecenatismo (o filantropia culturale) e sponsorizzazione. Sono effettivamente due componenti fondamentali del fundraising culturale ma non sono le uniche e forse neanche le principali, almeno nella storia del nostro paese.
Queste due nozioni hanno caratteristiche comuni: la ricchezza, come presupposto della donazione o elargizione, la possibilità di ricevere un vantaggio reputazionale (come sottolinea la Treccani nella sua definizione di mecenatismo, esso è “mosso dalla aspirazione del mecenate di aumentare il prestigio e la reputazione” o addirittura di fare sfoggio munificente della propria ricchezza) o commerciale (come nel caso delle sponsorizzazioni); e la grandezza e la fama dell’oggetto del mecenatismo e della sponsorizzazione: grandi eventi, grandi monumenti, grandi opere d’arte, potremmo dire oggi “grandi attrattori”, ecc…
Ecco perché mi ostino a dire che oggi non possiamo parlare di fundraising culturale come di mecenatismo e sponsorizzazione, concetti legati a contesti che oggi non sono più veri. “Siamo tutti mecenati” è uno slogan-invito che non troverà mai un vero consenso di massa perché nessuno si riconosce in questa identità.
Infatti se questo fosse l’unico senso del sostegno privato alla cultura allora non ci sarebbe spazio né per i cittadini comuni né per tutto quel patrimonio culturale minore, materiale e immateriale, né tanto meno per tutte quelle forme e azioni di cultura volte a produrre forti impatti sociali (rigenerazione urbana, rilancio del piccoli borghi, coesione e integrazione sociale, creazione di impresa giovanile, ecc…) che guarda caso sono azioni svolte per lo più da organizzazioni culturali minori e non da grandi istituzioni prestigiose.
Se il fundraising culturale fosse solo mecenatismo e sponsorizzazione non ci sarebbe alcuna prospettiva di sviluppo, soprattutto in un momento di crisi economica e di continue emergenze che preoccupano la gente comune portandola ad occuparsi di cose più “terrene” della cultura con la quale – secondo molti – non si mangia (è una considerazione ironica, questa, a scanso di equivoci…).
È così che abbiamo creato in Italia le biblioteche (oggi comunali, ma un tempo tutte di origine sociale), i teatri per vedere ed ascoltare l’opera anche in comuni più piccoli, i musei di tradizioni e costumi popolari, e nei giorni nostri il recupero e riutilizzo di patrimoni abbandonati (molti di valore storico e artistico), la tutela e il recupero di tradizioni e conoscenze popolari, il miglioramento e la rigenerazione dei quartieri periferici, spazi di socializzazione e integrazione sociale a “base culturale”, la produzione culturale (film, musica, teatro, ecc..) che non riesce ad entrare nei circuiti di finanziamento commerciali e istituzionali, e tutte quelle manifestazioni e organizzazioni culturali che presidiano la quotidianità della cultura, quella che si vive tutti i giorni e non solo in occasione di grandi eventi episodici.
Sono tutte storie di fundraising culturale, spesso sconosciute o minimizzate, che fanno riferimento non allo stereotipo del mecenatismo e della sponsorizzazione, ma piuttosto al fenomeno della cittadinanza attiva e della partecipazione popolare. Un investimento di una comunità dove dentro ci sono anche persone ricche, aziende, filantropia istituzionale, ma sicuramente con un ruolo diverso da quello del mecenate.
A questo aspetto si aggiunge anche l’emergere di una nuova modalità di fruizione della cultura e di relazione con le istituzioni culturali che riguarda non solo e non tanto gli “amanti dell’arte” e gli “eruditi” ma una platea ampia di individui di tutte le classi sociali ed estrazioni culturali.
Interessante da questo punto di vista quanto sta cercando di fare James Bredburn, direttore della Pinacoteca di Brera, puntando sulle membership come strumento di creazione di una comunità che sostituisca il mero insieme di visitatori ai quali ci si rivolge con la biglietteria.
E per valorizzare questo fundraising culturale non possiamo certo usare gli strumenti tipici del mecenatismo e della sponsorizzazione.
Ecco perché ci appare urgente, tra le altre cose, puntare ad una diffusione della cultura del digital fundraising (e della cultura digitale in genere) all’interno delle tante organizzazioni e istituzioni che si occupano di cultura “alle radici dell’erba” al livello della società civile.
Perché è grazie a digitale che possono favorire e facilitare l’attivazione di una comunità che sostenga le loro attività, intrecciando più facilmente fundraising, engagement, fruizione di contenuti, volontariato civico, processi partecipativi (tutti aspetti che caratterizzano il fenomeno della cittadinanza attiva o, se volete, il volontariato culturale).
Purtroppo però sono proprio le organizzazioni e le istituzioni culturali minori che sono prive di una loro dimensione digitale del fundraising o, ancora di più, sono proprio prive di fundraising (il settore culturale del non profit – stando al censimento Istat sul non profit – è quello che pratica di meno il fundraising: solo il 20% lo fa).
Ma non è sufficiente solo questo. Occorre anche garantire un ambiente favorevole al fundraising digitale per la cultura. Sono ancora tantissimi gli ostacoli burocratici, amministrativi, organizzativi, fiscali che rendono difficile ad un normale cittadino sostenere una organizzazione culturale, soprattutto se piccola e non famosa. Se io voglio donare 10 euro ad un museo comunale dovrò usare il sistema PagoPA* (ad esempio) e se l’istituzione culturale non ha autonomia gestionale dovrò fare questa donazione ad un Comune o al Ministero (quindi non direttamente al beneficiario).
Questo solo per nominare alcuni degli ostacoli che ogni giorno riscontriamo nel portare il fundraising all’interno delle organizzazioni culturali.
Vi è un errore grossolano alla fonte di tutto ciò: si pensa che donare sia un atto per ricchi, guidato da un fine privatistico e non civico, accettato dallo stato ma non molto volentieri e quindi vincolato a norme e procedure che non sono coerenti con l’atto della donazione ma piuttosto con pratiche fiscali e contributive.
Mentre invece donare è un vero e proprio diritto dei cittadini che in quanto tale andrebbe non solo tutelato ma favorito e facilitato. Il diritto, quando sancito, ha valore superiore alla norma e al regolamento che devono adeguarsi alla sua tutela. E donare è un diritto perché è la forma economica della sussidiarietà (che è un principio costituzionale).
Il digital fundraising è lo strumento che più degli altri è in grado di rendere possibile la donazione da parte del cittadino comune ed è quindi un’arma strategica di tutela di questo diritto.
Occorre che gli investimenti in digitalizzazione della cultura (previsti tra l’altro dal PNRR e da tanti altri strumenti atti a sostenere la transizione digitale) vengano utilizzati per integrare nei sistemi di produzione e fruizione di contenuti digitali, altrettanti sistemi di digital fundraising.
Ma temo che questa occasione fatalmente verrà persa, concentrandosi solo sulla semplice digitalizzazione delle opere per una fruizione on line.
Occorre che vengano fatti investimenti significativi (per altro poco onerosi) per dotare il sistema culturale di una adeguata infrastrutturazione di digital fundraising e di digital engagement che si integri con la offerta di contenuti digitali (pensate alla grande opportunità rappresentata dalla gamification applicata ai beni culturali) e su sistemi di transazione digitale anche in presenza (i donor box per intenderci).
E’ una follia? Non credo almeno che non siano folli le tante istituzioni culturali che in altri Paesi europei da tempo hanno puntato sul digital fundraising conquistandosi il sostegno di una vasta comunità di donatori come il Louvre.
Sarà un caso che proprio questo Museo lanci da oltre 12 anni programmi e campagne con donazioni digitali sia per grandi che per piccoli donatori con risultati straordinari? O la Fondation du Patrimoine in Francia che ha affrontato l’emergenza di Notre Dame proprio grazie al digital fundraising, o il Natural History Museum di Londra che sta ottenendo risultati sorprendenti dalle postazioni di donazioni contactless rivolte ai frequentatori.
Occorre solo consapevolezza dell’importanza del fundraising per la cultura e volontà di agire da parte di tutti gli attori pubblici e privati del sistema culturale.
E’ per questo che la Scuola di Fundraising di Roma ha tenuto dal 13 al e 16 dicembre la seconda edizione di “+Fundraising +Cultura”, l’unico evento multistakeholder dedicato al fundraising culturale, che ha visto anche il qualificato intervento di iRaiser, che ha elaborato e restituito al paese 44 linee strategiche per far crescere in qualità e quantità il fundraising culturale (anche digitale!).
Gli esiti di questo lavoro sono raccolti in una pubblicazione che tutti possono scaricare gratuitamente qui, affinché tramutino queste linee in azione concreta, ognuno per le proprie responsabilità.
Vuoi saperne di più sull'Art Bonus? Leggi il nostro articolo e cogli l'occasione adesso!