Quando si parla dell’organo direttivo, della governance delle organizzazioni non profit, c’è spesso un sottinteso: che sia – nei fatti o negli atteggiamenti – resistente al cambiamento e, rispetto al fundraising, più spesso un avversario da battere che un alleato con cui vincere.
Il sottinteso nasce ovviamente dal fatto che, si parla molto più spesso di come raddrizzare qualcosa che non va, meno delle cose che già funzionano.
Quindi la premessa in realtà è: sì, esistono organi direttivi che, soprattutto guardando al fundraising, funzionano (e anche bene), mettendo in campo sforzi, ascolto, curiosità e competenze. Sono questi che danno la misura di quanto spesso le cose sia più complicato dirle che farle e le soluzioni alle difficoltà sia più facile trovarle che descriverle.
Ora parliamo di fundraising e quindi di digital fundraising. Quel “quindi” sta a significare che uno è nell’altro in modo sostanziale, che oggi non ha più senso considerarli cose distinte.
Quando in un’organizzazione chi guida e decide la direzione da prendere dice “il digitale non fa per noi, non è adatto ai nostri sostenitori, costa, ecc.” la risposta dovrebbe essere: “Aspetta, prendiamoci un’ora e parliamone.”
E in 60 minuti questi sono 3 argomenti da mettere sul tavolo e discutere con e dentro il Board:
Il Terzo Settore deve, volente o nolente, prendere parte al processo di trasformazione digitale del nostro Paese. Anzi non solo: deve cogliere le occasioni che l’innovazione offre per vivere la sua fase 4.0 e rafforzare la sua presenza attraverso il digitale.
E la trasformazione digitale non è un essere mitico, il nuovo “Sarchiapone”.
È piuttosto un dato di fatto pervasivo. Ha riguardato, riguarda e riguarderà ogni individuo e quindi ogni organizzazione. E, ancora di più, riguarda e riguarderà le competenze necessarie in tutti i settori, non solo nel non profit.
In modo più o meno consapevole e proattivo, ognuno la vive quotidianamente in quasi tutto quello che fa – lavorativamente, pubblicamente e privatamente. Perché a parte rare eccezioni chiunque sperimenta quotidianamente l’uso di tecnologie digitali, dispositivi mobili, forme di connessione, comunicazioni e interazioni online, invio o almeno ricezione di stimoli da canali digitali, soluzioni tecnologiche per gestire processi una volta “non digitali”.
Se oltre 35 milioni di italiani sono connessi per più di 3 ore al giorno, si informano, acquistano, dialogano usando canali digital, sarebbe antistorico e antilogico – a maggior ragione dopo il boost creato dai due anni appena trascorsi – pretendere di chiamarsene fuori. Il massimo sarebbe “finta resistenza”, smentita dai fatti. Perché le ricadute sono evidenti a tutti, e anche i dirigenti più prevenuti pongono poi l’aspetto digitale tra le priorità:
Se tutte queste premesse sono vere, non è sostenibile l’affermazione “il digital non fa per noi o per la nostra audience”. Perché significherebbe negare la realtà dei fatti e i propri stessi obiettivi strategici.
Quindi, prima di tutto, superiamo una questione pregiudiziale e proviamo a rispondere alla domanda corretta da porsi: “Dato che di fatto anche la nostra organizzazione e le persone che ne fanno parte sono digitalizzate e vivono il processo di trasformazione digitale, quanto ne siamo consapevoli? Quanto bene utilizziamo l’attuale livello di digitalizzazione e come potremmo migliorarlo, per comunicare, per interagire, per acquisire, per coltivare, per raccogliere fondi?
Abbiamo una strategia di trasformazione digitale, cioè una direzione da seguire in un percorso di miglioramento?
Queste sono le domande corrette che la governance di una nonprofit dovrebbe porsi, e a cui dovrebbe dare una risposta oggettiva.
Quando guarda al fundraising “tradizionale”, il Board “medio” lo vede come una soluzione ad un bisogno, quello di risorse. E spesso fatica a comprendere che per crescere in reputazione, allargare il consenso e raccogliere denaro, e farlo bene, è quasi sempre necessario investire risorse in persone, strumenti, materiali.
E lo stesso ragionamento vale per il digital fundraising, perché “digital” non significa gratis (anche se è un dato di fatto ormai che a parità di ritorni, l’investimento digitale oggi costi comunque meno). Ma un Board maturo conosce, o deve conoscere, la differenza che c’è tra spendere ed investire.
Spendere identifica tipicamente un costo “morto” che non produce ritorno attraverso il valore aggiunto creato da quella specifica spesa.
Investire rappresenta invece sempre e comunque un’opportunità concreta (anche se non una certezza) di aumento e miglioramento della propria produttività, e quindi in grado di portare ad un ritorno maggiore.
Detto in altri termini, ogni membro di Board dovrebbe avere chiaro che “risparmiare e non spendere” può rappresentare a medio termine un costo maggiore di un investimento ben fatto.
Un check up del proprio stato “digitale” e del proprio potenziale di digital fundraising dovrebbe condurre chi guida l’organizzazione ad una decisione di investimento consapevole: comprendere cioè su quali strumenti e canali è opportuno investire e con quali priorità, con l’obiettivo di avere un risultato che altrimenti non sarebbe raggiungibile (o con costi in termini di tempo e qualità non ragionevoli).
In ogni caso quanto detto, di fronte alla crescita esponenziale del digital come canale di coltivazione e raccolta fondi (soprattutto da mobile), consolidata dalle esperienze realizzate nel periodo pandemico, porta ad una conclusione che il Board non può non ignorare: non impostare una strategia di ingaggio e gestione digitale della propria audience e di digital fundraising consapevole (quindi proattivo) è un grosso rischio in termini di competitività per l’organizzazione.
Non è un segreto che anche il terzo settore è un mercato competitivo, così come il fundraising.
Inoltre, è da tempo maturo un concetto centrale: ciò che va messo al centro delle decisioni non sono l’esperienza e il punto di vista dei Board, dello staff, dei volontari dell’organizzazione, ma l’opinione, il punto di vista, le preferenze e i comportamenti dei sostenitori, acquisiti e potenziali. Occorre che la loro esperienza di interazione, ascolto, informazione e dono sia facile, lineare, anche piacevole. E adeguata ai canali e alle modalità che sono oggi più utilizzati. Infatti, la trasformazione digitale non implica un abbandono dei vecchi canali ma al massimo un’integrazione, un’aggiunta, un miglioramento.
Se il fine ultimo del fundraising è proprio la creazione di relazioni ed esperienze gratificanti con il donatore e per il donatore, nel 2022 non è più possibile non presidiare questo canale: competenze e strumenti per il fundraising digitale devono essere utilizzate a complemento di quelle tradizionali e “offline” (eventi, banchetti, direct mailing, etc).
In conclusione, un memo: la trasformazione digitale non è processo tecnologico, ma umano. Ed è infatti sempre importante parlare di un binomio tra competenze e strumenti di fundraising perché è solo attraverso questa unione che è possibile passare dalla paura della spesa, alla fiducia in un investimento per la crescita dell’organizzazione e quindi una trasformazione, maturazione, miglioramento.
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